Un pezzo di carne Una signora, antica mia conoscenza, è venuta oggi a trovarmi, dopo molti anni che non ci si rivedeva. Al primo vederla, vestita di nero, piccola, umile, ho creduto ch'ella avesse bisogno di qualche cosa: ma il suo viso è calmo, chiaro, e gli occhi hanno una luce com'è solo negli occhi dei bambini felici. Ella intuisce subito il mio pensiero, e dopo essersi informata, gentilezza che molti visitatori si dimenticano di usare, dello stato della mia salute e del mio umore, mi rassicura sul conto suo. - Ho finalmente affittato la mia casa a una famiglia per bene, - dice, - una famiglia ordinata e che paga puntuale: ma ne ho passate, finora, dopo la morte del mio povero marito. Il mio povero marito è morto senza lasciarmi altro che questa casa, con rate ancora da pagare, e non bene finita ancora. Morto lui, sapendosi delle mie tristi condizioni, il vuoto si è fatto intorno a me; ed io stessa mi sono rintanata nel mio dolore, nella mia miseria. Bisogna proprio aver fede in un'altra vita, dove solo ai buoni è concesso di riunirsi a Dio e alle persone amate, per vincere il terrore della solitudine interna ed esterna di questa vita mortale. Pare di camminare al buio, nella nebbia, in un luogo deserto dove neppure esistono le emozioni del pericolo perché anima vivente non si cura di te; pare così, ma in fondo non è; la luce e la compagnia delle persone amate è dentro il nostro cuore; altrimenti questo cesserebbe di camminare, e se cammina è appunto per attraversare lo spazio desolato che ci separa dal grande paese dove il dolore non esiste più. Ma tutte queste cose le sai meglio di me, - dice poi con un risolino di compiacenza per l'evidente interesse con cui si vede ascoltata: - piuttosto ti racconterò un fatto curioso, dal quale, se vuoi, puoi trarre una novella. Mettendoci un po' di arte, come tu puoi fare, diventa una novella straordinaria: io ci ho pensato, anzi volevo scriverla io, ma mi tocca troppo, è una cosa troppo mia perché io possa scriverla. Però ho bisogno di raccontarla, e sono venuta da te per questo. Dunque, dopo il primo stordimento per la mia disgrazia, per campare la vita e tener fronte ai miei impegni, ho dovuto affittare la casa: io mi sono ritirata in due stanzette del sottosuolo, dalle quali una scaletta conduce al giardino, portandomi giù solo il letto dov'è morto lui e la macchina da cucire. Come puoi pensare non facevo che piangere: la notte sognavo di lui e di tutte le cose care lasciate, con l'impressione di esser io la morta: morta e sepolta sotto la nostra casa. Nessuno più mi cercava né io cercavo nessuno. Con la somma depositata per garanzia dai miei inquilini avevo sistemato tutti i miei impegni, e mi restava il necessario per arrivare alla fine del mese: inoltre avevo qualche lavoro di cucito, procuratomi appunto dagli stessi inquilini. Era una famiglia straniera, di profughi, ricchi ma disordinati, con cameriere e bambini che giocavano tutto il giorno fra di loro rincorrendosi come matti nel giardino. Di sopra si suonava e si cantava, e si ballava anche, sebbene nel contratto questo fosse proibito. Era insomma un chiasso continuo; ma il fitto stabilito era talmente vantaggioso per me che lasciavo correre. Ero poi così piegata dal mio dolore, così distaccata da tutto, che nulla più mi premeva. Vivere per tacere e aspettare la grande ora. Eppure il poco riguardo di quella gente, che sapeva di aver sotto i piedi una pena come la mia, accresceva il mio accoramento. I bambini e le serve, poi, erano anche, sia pure senza volerlo, veramente crudeli. I loro giochi, le risate, gli urli davanti alla mia finestruola, irridevano la mia paziente solitudine. Un giorno di carnevale, coprirono gli alberi e i viali di stelle filanti e di coriandoli rossi, gialli e verdi. Era bello; pareva che il giardino fosse fiorito; tutti si fermarono a guardare, e un giorno sento una signora che dice ad un'altra: - È il giardino della vedova Pistuddi. - Si vede che è una vedova allegra - dice l'altra. Io piangevo. Ma adesso veniamo al fatto. I bambini si divertivano anche con un gattino molto bello, bianco e nero, che pareva avesse sul faccino bianco una bautta di velluto nero attraverso la quale gli occhioni azzurri guardavano come da una lontananza di sogno. Era giovine, e quindi molto allegro: se si affacciava al mio finestrino e se lo guardavo s'inarcava tutto e raspava l'inferriata; ma non osava saltare dentro perché una volta l'avevo scacciato malamente. I bambini ci giocavano, ma bestialmente; si divertivano a tormentarlo, e il più piccolo lo martoriava in tutti i modi. Un giorno ch'erano loro due soli in giardino sento il gatto miagolare così disperatamente che salgo la scaletta e mi affaccio per vedere che cosa succede. Il piccolo boia aveva legato il gatto a un palo e gli girava intorno frustandolo senza pietà. L'animale si contorceva, stralunava gli occhi, e dalla bocca gli colava una bava sanguigna. - Lascialo, - dico io, - non vedi che è arrabbiato e se riesce a morsicarti muori? Il monello, spaventato, si ritira: io slego il gatto che corre stordito qua e là e salta infine sul mio finestrino: non osa penetrare nel mio rifugio, ma trema tutto contro l'inferriata. Io torno dentro e lo chiamo: allora non esita a saltare nella mia cameretta, ma ancora accecato dal terrore va a nascondersi sotto il letto. Io lo lascio tranquillo: i bambini vengono a cercarlo, più tardi; io dico che non so dove sia, e, sebbene chiamato e richiamato, lui non si fa vedere. Sul tardi gli metto da mangiare in un piatto accanto al letto: vedo la sua zampetta allungarsi, afferrare qualche cosa e sparire. A poco a poco, rassicurato, viene fuori leccandosi i baffi, gira qua e là in esplorazione nella mia cameretta, mi guarda tranquillo, poi salta sul finestrino e se ne va; dopo un momento lo vedo che gioca sul muro del giardino con un altro gatto. Ho l'impressione che si burli di me; però mi sbaglio, perché da quel giorno siamo diventati amici. Sempre che io lo voglio entra in casa mia, fruga dappertutto, si corica sul mio letto, gioca col mio gomitolo: se lo chiamo mi salta in grembo, e io gli confido le mie pene, gli parlo male dei suoi padroni. Questi padroni sono divenuti insopportabili: è già scaduto il mese e non solo non hanno pagato il fitto ma neppure il lavoro manuale che io ho eseguito per loro. Il gattino ascolta, ma dei miei guai gliene importa nulla; lo interessano meglio i bottoni del mio vestito coi quali tenta di giocare. Eppure la sua compagnia mi è di conforto: lo accarezzo e lo sento caldo, dolce e vivo sotto la mia mano: è un essere anche lui, per me più vicino e umano degli uomini. E che abbia un'anima, o almeno un istinto superiore a quello che si attribuisce alle bestie, e specialmente ai felini, me lo dimostra il fatto al quale infine vengo. Dunque i miei inquilini non mi pagavano: per timidezza o per fierezza io non li sollecitavo; le mie risorse erano completamente esaurite, e piuttosto che prendere roba a credito dal droghiere o dal fornaio avrei preferito patire la fame. Tutte queste miserie le confido al gattino, quando viene silenzioso a trovarmi e prende posto nel mio cestino da lavoro. E arriva un triste giorno; un giorno di pioggia, di freddo, di malessere: io non ho più nulla in casa, tranne un po' di carbone che accendo perché almeno il colore e il tepore delle brace mi ricordino la vita. È verso sera, tutto è fuliggine e disperazione, fuori; io tremo per la tristezza e il malessere, e neppure le brace mi scaldano. Vado per chiudere gli scurini della finestra e poi seppellirmi nel mio letto freddo, e vedo sul davanzale il gatto. Mi pare strano che sia in giro con questo tempo: forse lo hanno maltrattato ancora e cerca scampo presso di me. Allora apro; esso balza via fuori e scompare: ma sul davanzale trovo un bel pezzo di carne fresco e intatto. L'ha rubato per sé, nella cucina disordinata ma sempre ben fornita dei suoi padroni, l'ha rubato per me? Io non lo so; so che ho accettato il dono con superstizione religiosa, non per ciò che rappresentava di materiale: so che anch'io, come il gattino di sotto il letto dove il terrore per l'incoscienza umana l'aveva cacciato, ho teso la mano diffidente ma non più tremante di spavento, verso quel segno tangibile di una legge di pietà e d'amore che deve unire tutti gli esseri viventi, anche se la nostra coscienza la ignora e non la vuole.