Strade sbagliate Nell'ampio e ordinato gabinetto del celebre frenologo, davanti all'imperiale figura di lui sta seduta, tutta protesa verso lo scrittoio che li separa, una signora ancora giovane ed elegante, ma il cui impeccabile tailleur col relativo gilè bianco, sembra preso in prestito da una persona molto più grassa di lei: il cappellino rosso contrasta con gli occhi azzurri spalancati e strabici, come la linea dei denti luminosi e intatti col viso scavato e ombroso di peli. In un canto è seduto, rigido e con le mani incrociate sulle ginocchia unite, pallido e consunto come un martire già morto, un uomo di mezza età. È il marito della signora. Egli ha già ultimato tutte le pratiche per l'"internamento" di lei, e aspetta che il Grande Dottore interroghi la malata e l'accolga nell'Istituto che ha un fresco nome di Villa salutare e felice mentre la contadina che vi porta le uova di giornata la chiama semplicemente «la pazzeria». Dunque, cara signora, - dice con voce brusca e burlevole il salvatore delle menti naufragate, - lei mi racconterà adesso, con calma, com'è andata la cosa. Com'è andata? Devo cominciare da principio? Da quando è cominciata la malattia? O prima ancora? Da quando ero bambina? Da dove devo cominciare, Albino? Da quando? Si rivolga a me, signora, non a suo marito. Ma è lui che deve dirmi... Ma chi è il medico qui? Io o suo marito? Dunque, stia buona: risponda a me. Quando è cominciata la sua malattia? Sono dieci mesi circa, sì, dall'estate scorsa. Al mare. Mi hanno condotto al mare, capisce, mentre dovevano condurmi in montagna. Perché io sono nervosa, e sono nervosa perché tutte le cose mi sono andate di traverso, nella vita. Già, sono figlia di un padre vecchio: era un dottore, mio padre, medico condotto in un paesetto sperduto di montagna: era un uomo intelligente, ma la solitudine e il contatto con montanari rozzi e idioti lo esasperavano. Allora beveva. Ed ecco che sono nata io. Egli lo sapeva, che dovevo nascere disgraziata; perché mi ha fatto nascere? Lo dica lei il perché. Lei che sa delle leggi fatali dell'eredità. Lasci l'eredità, signora. Neppure i polli credono più, adesso, a queste famose leggi. E lasciamo in pace i morti. Mi parli di lei, e solo di lei. Di me? Ah, sì, di me. Da bambina, dunque, anch'io sentivo la melanconia d'esilio che tormentava mio padre, e le esaltazioni di lui dopo che aveva bevuto. Allora egli parlava del mondo lontano, delle città grandi, come di un paradiso conquistabile. Mia madre, ch'era del paese, scrollava la testa, e si rattristava. Ma era una debole anche lei: non sapeva opporsi alle sregolatezze del babbo e non sapeva sottrarmi all'influenza di lui. Così io facevo una vita quasi animalesca, sempre fra i dirupi, a guardare le lontananze ed a cantare, a cantare; ma un canto esasperato che era come il richiamo a cose impossibili. Sognavo niente meno di sposare un principe, venire nella grande città, ed essere sempre in festa, fra musiche, canti, danze, colori. Ma io l'annoio, dottore, io parlo male; ho la testa vuota e non so quello che dico. Io sono malata, molto malata, e lei deve compatirmi. E questo santo uomo di mio marito, Albino, le dirà... Continui lei, signora, prego. Lei parla benissimo. Continui. Ah, dunque, non ricordo più. Ho la testa come la volta di una cattedrale, grande, grande; e le parole vi rimbombano come il suono delle campane. Dunque; ah, sì; sognavo un principe: e invece mi domandò in matrimonio il veterinario. Era un bel giovane, alto, forte, che curava le bestie con affetto paterno: anche gli uccelli feriti, curava, anche i conigli e, mi ricordo, una volta, anche una tartaruga che noi si aveva nell'orto ed era caduta da un muraglione. Era buono, con due occhi che sembravano due margherite brune. Mi piaceva, adesso posso dirlo anche davanti a te, Albino; gli ho corrisposto in segreto; ma quando si trattò di sposarmi non ho voluto più saperne. Mi vergognavo di lui, della sua posizione, del mio e del suo amore. Poi sei venuto tu, Albino: ti ricordi, Albino? Parla col dottore - ammonisce rassegnatamente il martire. Mio marito è ingegnere ferroviario: era capitato lassù quando si costruiva la linea: ci si incontrò, e la sola possibilità di andar via con lui, e la speranza di un avvenire luminoso, me lo fecero apparire subito come un inviato da Dio. O dal diavolo, via! - brontola il martire, con un sorriso nero. No, Albino, no, - comincia a spasimare lei, tremando e sussultando tutta come un'acqua ferma dentro la quale si buttano sassi, - non parlare così. Zitto, zitto! Zitti tutti! Non mi date contro, non mi perseguitate. Una corda, piuttosto, una corda per strangolarmi. Calma, signora, calma. Passato alquanto l'accesso che non è stato forte perché il marito non vi si è opposto, ella riprende: Ah, dunque, che cosa dicevo? Ah la mia testa è un mulino a vento; le mie braccia sono le ali. Vede come girano? Eppoi i sogni, dottore mio, i sogni orribili, nei brevi momenti di sonno. Dormire sarebbe guarire, ma i sogni sono l'inferno. È il castigo: è giusto. Io mi sono sposata senz'amore, e non ho voluto figli. Volevo divertirmi, godere la vita: e l'ho goduta. Ho avuto le cose che sognavo, i vestiti, le feste, le musiche, le amicizie che mi hanno stravolto la mente. Quelle donne del palazzo dove si abitava... Mi pigliavano in giro, si beffavano di me... Ero vestita come una contadina... Ma io ho voluto vincere. Sono andata dai grandi sarti. Albino mio marito, qui presente, povero amore, povero cristiano, Albino mi ha comperato la pelliccia e le perle... Ma non ero contenta; mai contenta. Leggevo le cronache mondane e invidiavo le dame dell'aristocrazia: loro sole erano felici; e mentre si davano le grandi feste, le prime rappresentazioni, i concerti di lusso, io mi rodevo, a casa, costretta ai lavori domestici. Ma in fondo sentivo di essere stupida e ignorante. Allora ho cominciato a leggere, a leggere, di giorno e di notte, chilometri e chilometri di pagine, in una corsa pazza nel mondo dell'impossibile. Anche libri di scienze, leggevo: volevo sapere, volevo spiegarmi il mistero di questa nostra vita senza meta e senza scopo. E la lettura riempiva in qualche modo il vuoto che era non fuori ma dentro di me. Allora mi riprese l'antica passione. Pensavo sempre al mio primo fidanzato. Albino è buono, è santo, ma è la realtà fatta persona; quell'altro era il sogno, l'amore, la fanciullezza perduta. E ho voluto rivederlo. Lassù. Aveva moglie e figli. Era grasso e invecchiato, con gli occhiali sporchi. Non mi guardò neppure. Ritornai giù più disperata di prima: Albino, povera creatura, faceva di tutto per distrarmi: i suoi guadagni se ne andavano per me. Io avevo già il verme nel cervello: gli occhi mi si offuscavano. Dovetti smettere di leggere, e questo fu l'ultimo crollo. D'altronde neppure i libri m'interessano più. Tutto è vuoto d'intorno a me, tutto è vuoto d'intorno a me, tutto è vuoto... Abbiamo capito, signora - dice il grande dottore, strizzando gli occhi con una certa malizia. E d'improvviso si solleva, ancora più imponente, ed anche sulla sua testa ferina i grandi capelli d'argento pare si gonfino come le piume di un'aquila in collera. Eppure egli non è sdegnato: anzi sembra sul punto di ridere: forse ha trovato nella malata un soggetto speciale, e lo accoglie con gioia, come una fonte di nuovi studi. Volge l'orecchio verso di lei, per ascoltarne meglio la voce. Lei, signora, adesso risponderà semplicemente alle mie domande. Lei quali sintomi, oltre quelli da lei vagamente indicati, sente? Ha palpitazioni, senso di soffocamento, freddo alle estremità? Sì, sì - ella risponde con ansia. E maggiore è la sua ansia, maggiore è la soddisfazione di lui. Benissimo. Benissimo. Sente lei l'assenza assoluta di volontà a vincere la sua angoscia? Sì, sì... Ma mi spieghi lei, perché?... Le spiegherò dopo. Sente lei... E dopo il lungo interrogatorio egli spiega alla donna ansiosa il mistero della sua malattia. Lei crede di essere pazza, e la sua pazzia consiste nel credersi tale. Lei è come uno che ha lasciato la strada dritta e sicura per inoltrarsi in un'altra che gli pareva più breve e piacevole. E invece si è smarrito; è in un labirinto boscoso e pietroso dal quale crede di non poter più uscire vivo. Cadono le tenebre e il terrore aumenta. L'uomo corre, cerca tutte le uscite, torna indietro, si aggira intorno a sé stesso, chiama aiuto, e il suono stesso della sua voce, gli sembra la minaccia di un nemico. S'egli si buttasse a terra e facesse una bella dormita, potrebbe, al ritornare della luce, rifare la strada percorsa e ritrovare la buona via. Invece no, corre ancora, nel buio, urla, si ferisce con le pietre e con le spine: crede di essere pazzo e lo è semplicemente perché si crede tale. Ma queste sono accademie. Lasciamole lì. È meglio che io adesso, cara signora, le faccia fare un bel bagno caldo, poi la metto a letto per venti giorni. Là ha tempo di ripensare ancora al suo bel veterinario il quale, poveraccio, in questo momento starà a salassare qualche cavallo.