La palma Uno scrittore, del quale forse s'indovina il nome, aveva stabilito di regalare la sua penna alla cuoca, per la nota della spesa. Troppi dispiaceri la letteratura gli dava. Qui non si parla del lavorio interno che fa dell'artista un eterno arrotino occupato ad affilare il proprio coltello: si tratta di dispiaceri più gravi. Il più solido glielo aveva ultimamente procurato l'Agente delle imposte, con un avviso di accertamento di redditi di ricchezza mobile, che lo tassava per la sua professione di scrittore; seguiva il Comune, che senza tanti complimenti lo tassava non solo per professione ma anche per esercizio (rivendita dei propri libri). Venivano dopo i nemici minori: l'editore che s'infischia della diffusione dei volumi; i librai che fanno altrettanto, i critici che candidamente confessano di non capire nulla del libro letto; infine certi scrittori che in buona o mala fede prendono lo spunto dai suoi romanzi e novelle e riescono a interessare più di lui. Considerate bene tutte queste cose, egli decise dunque di non scrivere più, e neppure di pensare più come un artista. Voleva ridiventare un uomo qualunque, occuparsi solo di affari comuni: del resto, fatto bene il calcolo delle sue rendite patrimoniali, scoprì che aveva abbastanza da vivere e spassarsela coltivando il suo giardino. Così, regalò la sua penna alla cuoca, che gliene aveva richiesta una, e scese nel giardino per passarci le ore durante le quali usava scrivere. A dire il vero egli non conosceva a fondo tutto il suo giardino del quale non si era mai personalmente occupato: e anzitutto fece un giro di esplorazione. Gli parve di passeggiare su una pagina di geometria, intorno ai circoli, ai triangoli e ai quadrilateri delle aiuole, in mezzo a ognuna delle quali sorgeva una pianta diversa. E si meravigliò di vedere, in settembre, i crisantemi fioriti. C'era anche un pergolato di vite americana con sotto una bella panchina verde che gli destò una delle solite immagini. «Questa panchina verde pare far parte della vegetazione intorno, nata pur essa nel giardino, col suo profumo di vernice». Si ribellò immediatamente: all'inferno le immagini letterarie, che sono come una lebbra sulla pelle nuda e sana della realtà; la panchina, per quanto d'origine boschiva, è opera del falegname e fatta per sedercisi. Egli ci si siede e guarda in su, non più per godersi il gioco del verde e dell'azzurro, ma come il gatto che finge di contemplare il cielo mentre guata l'uccellino sul ramo: cioè per contare i grappoli dell'uva calcolando quanti chilogrammi possono pesare. Questo calcolo però è attraversato da altri pensieri involontarî; si direbbe che il cervello funzioni per conto suo; e così egli si accorge con spavento che pensa all'invidia di certi scrittori se lo vedessero così in mezzo al suo bel giardino a goderselo in panciolle; e le immagini, è inutile, sono lì a portata di mano come i grappoli dell'uva che sullo sfondo smerigliato del cielo sembrano dipinti su una lacca giapponese. Maledizione delle maledizioni; eppure bisogna ammazzarlo questo come, schiacciarlo come i grappoli dell'uva per trarne il vino schietto della semplicità. E qui egli cerca di spiegarsi perché l'artista accoppia sempre le cose, come il contadino i buoi, per tirare meglio avanti: perché in realtà tutte le cose si rassomigliano, e alcune formiche leste e intrepide, condotte da un formicone con la testa rossa, che assalgono la torre del suo fianco fino all'orlo della tasca, gli ricordano un qualche gruppo di soldati da ventura o di ladri in grassazione. Egli lascia tuttavia che l'assalto prosegua; già il condottiero s'è introdotto nella tasca e le formiche lo seguono; ma come respinti da un esercito nascosto ne vengono subito tutti fuori sbaragliati e fuggono: è l'odore del tabacco da pipa che produce la ritirata. Più tenace e famigliare è un piccolo grazioso ragno bianco che lieve e rapido lo esplora dai piedi alla testa e gli si ferma di preferenza sui risvolti della giacca girando intorno ai bottoni: gira e rigira finalmente sosta e medita: medita senza dubbio un colpo straordinario; tessere la sua tela sul nobile petto dell'artista. Già attacca un filo a un bottone... Qui bisogna essere sinceri: questo avvenimento commuove l'uomo; le immagini letterarie lo abbandonano ed egli a sua volta si abbandona alla realtà semplice e meravigliosa: gli pare di essere eguale all'albero, alla vite, e di aver finalmente ritrovato l'equilibrio nello spazio. Ma una voce lo riscuote da questo sogno; ed egli manda via brutalmente il ragno, vergognandosi di essere sorpreso in corrispondenza con la natura. La voce che viene di dietro le sbarre della cancellata è del resto timida, e l'uomo che chiama: - Signore? Signore? - pare un giovine mendicante, vestito di tela, con le scarpe rotte. Il contrasto fra tanta miseria e la luce viva di due grandi occhi verdi attira l'attenzione dell'artista. - Che volete? - domanda accostandosi indolente alla cancellata; e lo sguardo col quale l'altro lo esamina, chiaro e scrutatore come quello del gatto che osserva un animale sconosciuto, gli rinnova l'impressione della corsa del ragno sulla sua persona. E come il ragno l'uomo deve provare un senso d'improvvisa confidenza perché senz'altro la sua voce si fa sicura: - Volevo chiederle se le foglie della palma sono da vendersi. Lo scrittore si volge tutto d'un pezzo a guardare la palma: a mala pena egli sa che nel giardino esiste una palma: adesso se la vede sorgere a un tratto davanti nel reparto a sud del giardino, grave, un po' massiccia, col tronco che pare un'enorme pigna donde si slanciano come da un vaso scolpito le grandi foglie raggianti. È bella; ha qualche cosa di religioso, e il cielo sopra la guglia delle ultime foglie si ravviva e ricorda quello del deserto. - Vede, - dice l'uomo introducendo il braccio nella cancellata, - quelle foglie sotto sono tutte malate: bisogna levarle; mi pare che quest'anno la pianta non sia stata potata. Bisogna potarla e curarla. L'artista lascia la sua contemplazione. - Ma, non so, è mia moglie che se ne incarica. - E dov'è adesso la sua signora moglie? - È fuori in campagna coi ragazzi. - E lei non va in campagna? - Io odio la campagna - si confida serio l'artista: e l'altro non domanda di meglio che prendersi confidenza. - E quale più bella campagna di questa? Ma questo giardino è mal tenuto. - Ma come, se ci son già i crisantemi? - Quelli si chiamano astri e fioriscono in agosto. L'artista non fiata più: l'altro insiste: - La palma va curata, potata, spruzzata di cenere; altrimenti chi sa dove va a finire. E discorri discorri andò a finire che lo scrittore aprì il cancello e l'uomo entrò. L'uomo teneva nascosta sotto la giacchetta, come un ladro, una sega a mano che pareva la mascella di un coccodrillo. Piano piano, con cautela, poiché le spine della palma sono velenose, segò un primo cerchio di foglie: a misura che queste cadevano le sollevava delicatamente, come ventagli di piume, e le metteva una sull'altra. - Adesso mi pare che basti - disse l'artista, pensando a sua moglie. Quell'accidente d'ometto indovinava però i suoi più intimi pensieri. - Non si preoccupi: la sua signora moglie sarà contenta. Vede come le foglie sono tutte nere e scabbiose? Hanno proprio la scabbia: questo secondo cerchio è anch'esso infestato e la pianta morirà se non si leva. Queste foglie, poi, che io posso lavare e vendere gliele pago: una lira l'una. - A che servono? Questa volta gli occhi verdi s'illuminarono di compassione. - Per le corone dei morti. - È vero, - esclamò l'artista; - e anche per metterle in mano ai màrtiri. E rise: rideva di sé stesso. Poi mentre l'uomo continuava a rodere come un topo intorno alla palma, egli fu ripreso dal gorgo dei soliti pensieri: chi quelle grandi foglie ricoperte di fiori dovevano accompagnare all'estrema dimora? Forse una fanciulla uccisa dall'amore, forse un potente della terra, forse un uomo che aveva scelto nella vita la via del male. - Va all'inferno - disse a voce alta a sé stesso, ritraendosi ancora una volta dal vortice della fantasia. L'uomo cessò immediatamente di segare, pur fingendo di non aver sentito quelle parole. Contò le foglie ristrette in due gruppi: erano sedici, delle quali, al suo dire, solo dieci buone ancora per le corone. E trasse palpandolo bene dal suo portafogli un biglietto nuovo da dieci lire. L'artista prese il denaro con una certa soddisfazione: pensava che il giardino cominciava a rendere: e tutto era buono dopo che egli rinunziava al lavoro di tavolino. - Se vuole, - disse l'uomo vedendolo così interessato, - posso lasciarle i mozziconi delle foglie: sono buoni per la stufa: fanno un calore terribile. Lo scrittore accettò: e dopo qualche minuto si trovò ai piedi come tanti grandi scorpioni i sedici mozziconi irti di zampe velenose. Così, sotto la palma che dava l'idea di una pecora stordita dopo la tosatura, lo trovò la sua cuoca quando venne a consultarlo come doveva cucinare il cefalo che teneva fra le mani e dal quale faceva sprizzare con un coltello le scintille delle scaglie d'argento. Nell'accorgersi del disastro ella si appoggiò ad un albero: veniva meno. - Ma che è accaduto? - balbettò infine. Egli le fece vedere le dieci lire, osservando che il cefalo se lo era ben guadagnato anche senza scrivere; ma la cuoca gli agitò il pesce sulla faccia come volesse percuoterlo. - Adesso la sua signora moglie! Adesso la sua signora moglie! - Ma che ti senti male? - Ma non capisce che quello ha veduto la sua faccia? Che lo ha derubato? Che le ha rovinato la palma? Che lui rivende le foglie a dieci lire l'una? Mai in vita sua lo scrittore si sentì più umiliato di così. - Capisco - disse a testa bassa, come parlando ai mozziconi della palma. - Chi è nato artista non può morire uomo di affari. È meglio che mi rimetta a tavolino, a scrivere le mie favole. E poiché era abituato alla sua penna la richiese alla cuoca. - Prima almeno mi lasci fare il conto - disse lei. Il conto lo aveva già fatto e il cefalo vi era segnato per lire undici; ma pensando che il padrone lo si poteva dunque imbrogliare allegramente, corresse in questo modo: cefalo, lire sedici. E il padrone le regalò anche un'altra penna.