Ecce homo Eravamo entrati in una pasticceria all'angolo fra una grande strada e un vicolo poco frequentato, e il conoscente col quale mi trovavo per caso in compagnia sceglieva alcune paste da portare ai suoi bambini. Il pacchetto roseo era pronto, e l'uomo aveva già pagato, quando il cameriere balzò di scatto contro un individuo che si disponeva ad andarsene, gli afferrò le braccia, per di dietro, lo scosse ruvidamente, gridandogli contro le spalle: - E adesso per Dio basta, sa! È già tre giorni che fa lo stesso giuoco. Ma che prende la gente per cretini? Si vergogni, si vergogni. L'assalito era un uomo alto, anziano, distinto. Vestiva anzi con una certa eleganza, con le ghette grigie sopra le scarpe di lustrino, i guanti in mano, il cappello chiaro col nastro turchino. Dal mio posto io vedevo solo di scorcio il suo viso, una guancia rasa alquanto appassita e l'orecchio che all'assalto del cameriere s'era fatto rosso come insanguinato. Del resto egli non diede alcun altro segno di turbamento: non si volse, non aprì bocca. Il cameriere adesso gli era passato davanti, senza lasciarlo, come girando di posizione intorno a una fortezza, e mentre continuava a gridargli vituperi, gli frugava con una mano le tasche. Ne trasse alcune paste, già un po' schiacciate, e le buttò con rabbia per terra. - Non per questo, sa, ma perché lei dovrebbe vergognarsi. Si vergogni. Vada via, vada via, - urlò in ultimo, spingendolo fuori della porta, - e si guardi bene dal lasciarsi rivedere. E quando l'uomo se ne fu andato, senza mai volgere il viso per non farsi vedere dai pochi ch'eravamo dentro la pasticceria, il cameriere si asciugò la fronte congestionata, poi automaticamente si chinò a raccogliere le paste che rigettò più indietro, sotto il banco, come si trattasse di cosa sporca: infine si calmò e diede spiegazione di quello che già tutti avevamo capito. - È tre giorni che viene qui, mangia, ruba e se ne va senza pagare. Nessuno fiatava; eravamo tutti come colti da vergogna per il nostro simile, e ci si guardò anzi a vicenda, con un vago smarrimento, come se ciascuno di noi sospettasse nell'altro un compagno del disgraziato. - Disgraziato! - dissi io, mentre subito dopo col mio compagno si lasciava la pasticceria, uscendo dalla porta verso il vicolo. - Avrà forse fame: forse voleva portare le paste ai suoi bambini. Non importa il vestire e le apparenze. Io conosco un impiegato che non riesce a sfamare completamente la sua famiglia. Il mio compagno, che oltre ad essere un ottimo padre di famiglia è un colosso sempre famelico, mi ascoltava pensieroso. La scena lo aveva profondamente disgustato e quasi atterrito, e le mie considerazioni, mi confessò dopo, gli destarono un fremito. Disse burbero: - Ad ogni costo, anche a veder morir di fame i propri figli, queste vergogne non si fanno. L'uomo non deve, specialmente a una certa età, far arrossire per lui gli altri uomini. E quel cameriere ha fatto male a non dargli una lezione migliore. Doveva chiamare una guardia. Adesso quel miserabile fa il giuoco in altri posti. Ah, eccolo lì, che cammina come se niente fosse... - disse poi sottovoce, fermandosi e fermandomi per il braccio, come se davanti a noi, nel vicolo nero, solitario, poco illuminato da una sola lampada ad arco alta e bianca come la luna, scivolasse un essere pericoloso. Posso dire che ho quasi sentito battere il cuore del mio compagno: certo era il suo orologio, ma mi parve il suo cuore. Certo ho sentito digrignare i suoi denti. Mi diede da tenere il suo pacchetto, poi senza dire una parola si slanciò avanti calcandosi il cappello sulla fronte come uno che vuol compiere una corsa vertiginosa. La sua ombra grottesca mi parve che lo seguisse affannosa, trascinata da lui con violenza. In un attimo raggiunse l'uomo del quale nella penombra si distinguevano le ghette e il cappello, come dipinti con la biacca per risalto al resto della forma scura: in un attimo lo investì, e mentre anche le due ombre si mischiavano per terra in una lotta misteriosa, lo volse con le spalle contro il muro e gli cacciò il pugno sotto gli occhi. Anch'io correvo, atterrita, ma nello stesso tempo curiosa e presa da un senso d'ilarità. Perché i movimenti di quei due erano veramente ridicoli e la tragedia era solo nel mischiarsi informe delle ombre che pareva lo scontro interiore dei due uomini. Il mio compagno parlava forte, ma in modo diverso del cameriere, con una voce lenta e cavernosa che non mi pareva più la sua. Si vergogni! Abbiamo veduto tutti, e ci siamo vergognati per lei. E devo dirle che se non la conduco in Questura è per riguardo alla signora che accompagno: ma badi che mi tengo a mente i suoi sporchi connotati, e che se l'incontro un giorno che siamo soli glieli cambio a furia di pugni. L'altro non rispondeva. Fermo contro il muro, con le braccia abbandonate e la testa china, pareva un morto appoggiato per forza a una parete. E il suo viso era come scavato da una croce nera, senz'altri connotati che quelli di un dolore senza nome e senza forma. Mai in vita mia ho provato un senso di pietà così straziante nella sua impotenza come quello che quel viso mi destò. - Lo lasci - imposi all'assalitore - non vede che è un poveraccio? Forse non ha la camicia. La camicia ce l'aveva, e di seta; ma io dissi così perché realmente avevo l'impressione di vedere il buon ladrone nudo ai piedi della croce: il vero ecce homo che è in tutti i disgraziati fuori dell'umanità. Il mio compagno non poteva capire: si irritò anzi contro di me. - Mò le faccio vedere se la camicia ce l'ha. Aspetti... E gli frugò nelle tasche come aveva fatto il cameriere: ne trasse il portafoglio, lo aprì: era pieno di denaro. Lo buttò per terra e ci sputò sopra. - Andiamo - disse, con terrore. L'uomo non si moveva. Solo quando noi due si fu un poco avanti e io mi volsi, vidi che raccoglieva il portafogli, con cautela, per non macchiarsi con lo sputo. - È fuori dell'umanità. Ma troverà la sua - borbottava il mio compagno. Eppure io sentivo crescere in me la pietà, fino alla desolazione, fino alla vergogna di sé stessa.